Una  ricostruzione “emozionale”, sempre attuale delle tradizioni ed usanze nelle contrade dell’Alta Irpinia

Il Natale con le sue tradizioni e i suoi valori resta uno dei momenti più magici ed affascinanti dell’anno, crea suggestioni, ricordi e rinnova tradizioni culturali che ovunque si ripetano, sono l’espressione del senso di appartenenza a un luogo, a una terra e alla sua antica e grande civiltà.
Nell’entroterra campano, nelle zone interne, lungo la dorsale appenninica del nostro sud, il Natale sa dell’antica civiltà contadina, dei suoi valori, delle sue usanze e perché no anche della sua miseria, ma ricco di gesti, a volte anche di ritualità e di forme, nel tempo diventate sostanza.
Il Natale dei contadini dell’Alta Irpinia, come di tanti territori confinanti, è il Natale che celebra la gioia dello stare insieme e della condivisione, in un ordine gerarchico fatto per età, per ruoli, per funzioni, tutto però improntato dal rapporto ancestrale con la terra, la natura e l’ambiente di cui l’uomo stesso ne è parte integrante.
Tante erano le tradizioni collegate al periodo natalizio, spesso si diversificavano per alcuni dettagli di paese in paese o addirittura di contrada in contrada, ma nella sostanza erano uguali e ancor di più lo erano i valori a cui esse facevano riferimento.
Il Natale si avvertiva nei paesi e nei casolari, non come oggi con le luci, ma con la prima domenica di Avvento ed ancor di più cresceva nell’aria, nelle menti e nei cuori sin dal giorno dell’Immacolata.
Era molto diffusa la cultura del piccolo presepe nelle case, non c’era abitazione di famiglie facoltose o di contadini che non avesse almeno una piccola natività. In tutti c’era il rispetto della deposizione di Gesù Bambino nella mangiatoia la Notte di Natale. Molto rara la presenza dell’albero di Natale. Tutti si procuravano un po’ di vischio da collocare all’ingresso delle case, povero significativo esempio del Natale.
Tornando alle tradizioni era molto in voga in ogni paese, nelle comunità dell’Alta Irpinia, dove la religiosità era intrecciata con la civiltà contadina e dove i tempi ed i ritmi della vita quotidiana erano scanditi anche da quelli religiosi, in molti, se non in tantissimi, si partecipava dal 16 dicembre fino alla Notte di Natale alla “Novena” che si celebrava presso le chiese aperte al culto. La Novena consisteva nell’azione liturgica e in canti natalizi dell’Avvento. Altra storia era la Novena diffusa in tutte le famiglie dove in prossimità del presepe con la capanna con la mangiatoia vuota si celebrava il rito domestico della Novena con canti, preghiere e filastrocche locali sul Natale. Spesso trovandosi dalle nostre parti contadini del Cilento o del Molise con zampogne e ciaramelle venivano invitati a suonare la Novena davanti al presepe. In molti paesi con una tradizione musicale o bandistica c’erano ragazzi o adulti che utilizzando uno strumento musicale in loro possesso sostenevano il giro della Novena di Natale musicale e cantata, casa casa.
Un’altra tradizione dell’Alta Irpinia, che in alcuni paesi si svolgeva a Natale e in altri a Capodanno, era la “’nferta”. Il bambino nei giorni di festa, Natale o Capodanno, faceva visita a tutti i parenti e quando aprivano la porta per farlo entrare gridava “ ’nferta” e i parenti dovevano dargli un regalo. In alcuni paesi questa tradizione è ancora presente.
Tante erano le tradizioni individuali e collettive del Natale, ma una tradizione natalizia molto significativa, in vigore presso le famiglie dei nostri contadini fino ad alcuni anni fa e ormai caduta nel dimenticatoio era quella del “ceppone”.
La vigilia di Natale, tutti i membri della famiglia, rispettavano il digiuno stretto, ovvero non si “cammerava”, cioè non si mangiava carne nella giornata del 24 dicembre.
Al mattino veniva preparato sul piazzale antistante la casa, un grosso tronco di quercia o di olmo, il cosiddetto “ceppone”.
Sul tardo pomeriggio, dopo che le donne avevano ultimato la preparazione dei piatti tipici della vigilia, la famiglia si riuniva nella piccola stanza che fungeva da cucina e da sala da pranzo.
Il focolare spento, la mensa spoglia, in linea con la concezione patriarcale della famiglia, entrava in azione il nonno o il più anziano della famiglia, chiamato “Tatone”, che dava inizio ad un rito che aveva qualcosa di magico e di sacro.
Veniva chiusa la porta di casa, restava fuori il più piccolo della famiglia, tutti gli altri erano riuniti al centro della stanza.
Il silenzio regnava sovrano, a un certo punto il piccolo bussava alla porta, dall’interno il “Tatone” rispondeva: “Chi è?”
Rispondeva il piccolo “So Natale” e di rimando il “Tatone” : “Natale di ogni bene, tanti auanno e tanti l’anno che vene” oppure “Natale di ogni bene, tanti auanno e recchiù l’anno che vene”.
Questo dialogo si ripeteva per ben tre volte. Alla fine la porta veniva aperta e il piccolo, che rappresentava “Gesù Bambino”, veniva accolto con emozione all’interno della casa.
A questo punto i membri più giovani della famiglia, si portavano fuori e trasportavano a braccia il “ceppone” all’interno della casa. Il tronco veniva collocato al centro della stanza e intorno si disponevano, in cerchio, i membri della famiglia, tutti posavano la mano sulla faccia superiore del “ceppone” toccandosi l’un l’altro consecutivamente con il pollice ed il mignolo.
“Tatone” , con dignità e sovranità quasi sacerdotale, invitava tutti alla preghiera, una sorta di filastrocca che si tramandava di generazione in generazione.
Dopo la preghiera il “ceppone” veniva accostato al focolare e si accendeva il fuoco. Subito dopo le donne apparecchiavano la tavola e si consumava il cosiddetto “cenone”.
Le pietanze avevano come elemento fondamentale il baccalà, i peperoni ripieni o con il vino cotto, frutta secca, struffoli, zeppole, fichi secchi, uva passita, come si usa ancora oggi.
Al termine della cena tutti si riunivano intorno al focolare e, in attesa della messa di mezzanotte, le nonne, per tenere desti i bambini raccontavano le favole di ispirazione religiosa.
Verso le 23, quando le campane chiamavano a raccolta i fedeli i piccoli e alcuni adulti, vestiti a festa, lasciavano le case avviandosi a piedi alla volta del paese per assistere alla Messa di mezzanotte e adorare il Bambino Gesù giacente nel presepe allestito in chiesa.
C’è da ricordare che le dimensioni del “ceppone” dovevano essere tali da resistere al logorio del fuoco fino alla mezzanotte.
C’era poi una variante, se nelle vicinanze della casa era presente una frana o uno smottamento, il “ceppone” veniva acceso la vigilia di Natale, doveva essere di dimensioni così grandi, da dover resistere fino all’ultimo dell’anno. I familiari stavano attenti a che non si consumasse fino a questa data e, verso la mezzanotte del 31 dicembre, il “tezzone” non ancora consumato, veniva preso da un figlio di famiglia e portato acceso fino al luogo della frana e gettato nella spaccatura del terreno.
Si riteneva che questo gesto avesse il potere magico i fermare la frana e salvare la staticità del suolo, quindi della propria abitazione minacciata.
A nessuno, credo, sfuggirà il simbolismo di questa poetica tradizione che non si sa se venga ripetuta ancora in qualche famiglia dell’Alta Irpinia in occasione del Santo Natale.
Oggi il Natale è diventato per noi una festa consumistica che ha perso quasi totalmente il vero significato culturale e sociale, quello della condivisione, dello stare insieme e della fratellanza, per questo è importante riscoprire le tradizioni e riappropriarci di quei valori che, forse, troppo spesso perdiamo di vista, abbagliati non dalla voglia insita nell’uomo della curiosità e scoperta del nuovo, ma da un modernismo di facciata, di maniera, fatto molto spesso solo di immagine, senza sostanza.
I popoli che dimenticano la propria storia non hanno futuro!
Le nostre Comunità, spesso, se non sempre, mortificate oltre che dalla natura dall’uomo, necessitano di riappropriarsi della loro storia, quella vera autentica non artefatta, fatta di antichi valori, di rispetto per la terra, ambiente e territorio, e dignità per l’uomo!
Si dignità per l’uomo, assicurando il lavoro, opportunità di crescita e di riscatto, servizi ed assistenza, contro la desertificazione, per una qualità della vita che valga la pena di restare.Solo così potranno esserci tanti altri Natale in una terra da non dover abbandonare, perché ricca di valori, di dignità ed umanità, che della centralità dell’uomo è fatta la sua storia civile, politica, culturale e sociale.
Tony Lucido