Il minuto di rivoluzione di Marco Paolini

“E adesso un minuto di rivoluzione”. Silenzio, e poi “Bravi: avete percorso 1800 chilometri”. Con queste parole Marco Paolini ha accolto questa sera, lasciandolo per un attimo sgomento, il pubblico del Teatro “Carlo Gesualdo” di Avellino che si è forse domandando cos’è un minuto di rivoluzione? Un minuto del moto della Terra di cui non ci rendiamo conto, ovvio, ma rivoluzione è un termine quanto mai evocativo, “rivoluzionare” il tradizionale punto di vista, cambiare angolatura per scoprire qualcosa fino a quel momento ignorato o volutamente tenuto nascosto. Cosa si fa in un minuto di rivoluzione? Bhe noi spettatori ce lo siamo chiesti, incerti su dove Paolini volesse andare a parare senza capire che già ci aveva presi e forse proprio il silenzio, nella società della comunicazione, ha in se qualcosa di rivoluzionario.
Alle 18.30, minuto più minuto meno, il sipario del Gesualdo si è aperto mostrando al pubblico in sala la scena dominata da una grande sfera, una sorta di mina pronta ad esplodere quando Galileo arriverà alla dimostrazione, grazie al suo “cannone occhiale”, della teoria copernicana per rivelare il modellino del sistema solare con i pianeti ruotanti attorno a lui. E ancora un leggio per alcune incursioni nel teatro shakespeariano, ad esempio con una citazione dell’Amleto in lingua madre, ovvero il dialetto veneto, o per alcuni brani dell’opera di Copernico; e su tutto, in gigantografia, un brano autografo dal “Dialogo sopra i due massimi sistemi”, il cuore pulsante di questo “ITIS Galileo”. E poi il professor Paolini che questa volta ha superato se stesso: affabulatore del linguaggio ammaliante e dai tempi perfetti, ma soprattutto furbo “mostro di scena”, capace di catturare il pubblico anche con qualche battuta comica, attore a tutto tondo che, grembiule di cuoio e cappellaccio nero in testa come un vecchio artigiano, prende le parti dei personaggi messi in campo, ne crea una commedia dell’arte in piena armonia con una trama che è si di narrazione ma che si accende grazie all’entrata in scena di tante figure e poco importa se sono apparentemente piccole perché è il peso che rivestono in questo racconto, dove nulla è superfluo o lasciato al caso, ed il loro significato ad avere, nell’interpretazione di Paolini, un giusto e motivato rilievo.
Questa sera è stato come ritornare tra i banchi di scuola e tutta la scienza, la fisica, la matematica che anni addietro abbiamo studiato frettolosamente o di malavoglia il prof Paolini le ha riproposte colmando le nostre, e le sue, lacune accompagnando la sua ricerca con un elemento raro e prezioso: la capacità di stupirsi, la stessa che ha un bambino di fronte al sole, alla luna, alle stelle, di fronte al brivido dell’infinito e alle strambe domande su cosa faccia cascare le robe per terra, o mantenga costante il movimento di ogni pendolo. Aristotele e Tolomeo, Copernico e Keplero, l’astronomia (perché Galileo per vivere faceva oroscopi!) e il Sant’Uffizio (dove veniva conservata una copia di ogni libro iscritto all’indice) sono nomi e discipline che per una sera Paolini ha messo in libera uscita, le ha svincolate dalle pagine dei trattati e le ha mescolate alla vita di un uomo pavido, avido, che non ha mai avuto il coraggio di scoprirsi in prima persona ma che ha avuto l’ardire di rubare l’idea del cannocchiale dagli Olandesi, che non ha mai sposato l’amante da cui aveva avuto due figlie e che, di fronte alla minaccia di morte, non esitò ad abiurare le proprie tesi eretiche; insomma ha raccontato Galileo, uomo anche non privo di difetti ma sempre campione di un’ostinata devozione al sapere. Un uomo che fu contemporaneo di Shakespeare, ma che a differenza dello scrittore inglese, non ottenne la stessa fama e lo stesso rispetto, nell’esatto momento di collisione tra antico e nuovo, e dunque fratello di Amleto e come lui emblema moderno perché preso da mille domande, eroe e vittima della propria intelligenza basata sullo scomodo beneficio del dubbio. È la forza della ragione quella che Paolini ha esaltato in due ore di spettacolo, o meglio di affabulazione attoriale, trascorse rapide ed avvincenti durante le quali l’attore ha messo la sua arte al servizio di un teatro civile che è si intrattenimento ma intelligente, senza proclami o didascalismi, senza ammiccamenti; uno teatro che fa crescere, che è capace di creare un momento di riflessione su la figura di Galileo e sulle sue vicende che Paolini ha restituito in tutta la loro attualità, quelle debolezze e quegli opportunismi di Galileo che possono diventare il filtro per leggere l’intera realtà attorno a noi. Dopo le dolorose note dell’abiura cui lo scienziato fu costretto dal Sant’Uffizio, lo spettacolo si chiude con l’immagine simbolica di Paolini che, cavalcando la mina sfera sulle note di una coinvolgente versione rock della Quinta di Beethoven, prende il volo glorificando Galileo, il suo metodo, la forza probante e liberatoria dell’errore.

Diletta Picariello